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Piccoli soli di Sicilia: la poesia dell’arancin*

Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo di una mano fatta a conca, ci si mette dentro un cucchiaio di composta e si copre con altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’uovo e nel pangrattato. Dopo tutti gli arancini si infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare nella carta… E alla fine ringrazziannu u Signoruzzu si mangiano!

– Andrea Camilleri, Il cane di terracotta (1996)

Ufficialmente riconosciuto e inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT) del Ministero delle Politiche Agricole, street food siciliano per antonomasia, è almeno dal secondo dopoguerra che l’Arancina/o divide drammaticamente la Sicilia grossomodo da nord a sud: “arancina” contro “arancino”, cono contro sfera. Se la parte occidentale dell’isola infatti, Palermo in testa, appella al femminile il caratteristico timballo di riso prelibatamente condito e racchiuso da sopraffina doratura fritta in sferica forma, quella orientale e meridionale prediligono, invece, l’arancinO: conico, e maschio. E considerando la fama mondiale di uno dei più tipici cibi da strada della Trinacria, si tratta di uno scisma di natura quasi religiosa, una disputa etimologica e filologica.

Il Pomo della discordia

La tradizione fa risalire le origini dell’arancina/o al periodo di dominazione araba, tra il IX e XI secolo. Durante il banchetto, gli arabi erano usi collocare a centro tavola un ampio vassoio carico di riso aromatizzato con zafferano e arricchito da verdure, carne e altri aromi. I convitati potevano così servirsi allungando una mano, appallottolando il cereale nel pugno e condendolo prima di gustarlo appoggiando al centro della carne di agnello. La panatura è poi un’invenzione geniale, utile a rendere trasportabile il godurioso pasticcio. Muniti di croccante corazza dorata ottenuta mediante la frittura, gli arancini diventano così cibo da viaggio, uno street food ante litteram. E qualcuno non esita ad attribuire la bella pensata al sovrano svevo Federico II, il quale, particolarmente ghiotto di riso, non vuole privarsene durante le lunghe battute di caccia.

Il Liber de ferculis et condimentis di Giambonino da Cremona (uno dei più grandi traduttori dall’arabo del Medioevo, XIII sec.), dedicato alla gastronomia araba, spiega che tutte le polpette preparate in quella cultura prendevano il nome dai frutti cui somigliavano, per forma e dimensione. Ecco quindi l’assimilazione all’arancia (in arabo naranj); anzi, a una piccola arancia, da cui la scelta del femminile “arancina”. Del resto, all’epoca, la Conca d’Oro palermitana risplende punteggiata da rigogliosi agrumeti, e i dominatori d’Oriente possono ammirare splendide arance un po’ ovunque.

I fautori del maschile, tuttavia, fanno notare che in lingua sicula non è l’ “arancia” il frutto dell’arancio, ma l’ “aranciu“. E in effetti i dizionari dialettali, a partire dal Buldi (1857) registrano il termine al maschile; mentre bisognerà attendere l’anno 1942 per la prima attestazione del termine nella lingua italiana, nel Dizionario moderno del Panzini.
Per la Crusca, comunque, entrambe le diciture sono corrette, nella misura in cui il femminile ha un’impronta più vicina alla lingua italiana e il maschile è di derivazione più strettamente dialettale.
E’ pur vero, però, che se l’agrigentino di Porto Empedocle Andrea Camilleri fa sbavare il suo Montalbano per gli “arancini” della governante Adelina, una crepa illustre sul fronte orientale si apre leggendo il celebro romanzo verista I vicerè, in cui il catanese Federico De Roberto tradisce la propria fazione e parla al femminile di “arancine di riso grosse ciascuna come un mellone”.

Eppure è una spiegazione, quella araba, tanto plausibile quanto problematica, almeno analizzando criticamente fonti e testimonianze. Se l’arancino è tanto antico, infatti, perchè mai non verrebbe menzionato dalla letteratura prima della seconda metà del XIX secolo? E per quale oscuro motivo il primo dizionario che lo registra, quello del palermitano Buldi, lo definisce una «vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia»? Altrettanto problematico, per finire, il “caso pomodoro“. Se lo zafferano è un tipico ingrediente arabo, così come il riso che va a insaporire e colorarlo, è però innegabile che il pomodoro comincia a essere coltivato a scopo alimentare nel Sud Italia solo all’inizio dell’Ottocento, divenendo popolare solo a secolo inoltrato.

Il legame tra il piccolo sole di Sicilia e la tradizione araba, insomma, è profondamente ridimensionato, suggerendo un quadro piuttosto differente: quello di un piatto nato nella seconda metà dell’Ottocento come dolce di riso e trasformato quasi subito in specialità salata. Quanto alla forma, invece, il nome testimonia, anche escludendo il collegamento con la pallottola di riso araba, che quella originaria dovette essere sferica; quella conica sarebbe poi innovazione abbastanza recente, forse ispirata alla figura dell’Etna; oppure creata a scopo pratico, considerando che i catanesi impugnano l’arancino tenendolo dalla punta, come fosse un cono gelato.

“Una palla di riso che resiste ai secoli”

Campo di battaglia su cui si affrontano le città siciliane più grandi, le dispute etimologiche e filologiche tra un palermitano e un catanese, un trapanese e un messinese, potrebbero degenerare in liti che riportano ai duelli medievali:

“Ché noi che le mangiamo le arancine, no, noi non vogliamo (soltanto) bene all’arancina, palla di sfera che si basta da sé. No. Noi CELEBRIAMO l’arancina. Noi la veneriamo, lei e la sua tondità solare, sfera a carne o a burro, palla, piccola arancia, fìmmina. Il resto, non esiste il resto di fronte all’arancinA”.

– Davide Enia

«Una palla di riso che resiste ai secoli»: così ne parla lo storico palermitano Gaetano Basile.

Che poi, maschio o femmina, a punta o rotonda, è sempre la fine del mondo!

La ricetta

Tra le mille varianti, è quello al ragù il più illustre esponente dell’immensa famiglia, inserito dal Ministero nella lista dei Prodotti Agroalimentari tradizionali italiani con la denominazione di “arancino di riso”, con ingredienti base: riso
bollito (quasi sempre aromatizzato con zafferano), carne macinata (bovino, maiale o vitello), salsa di pomodoro (rigorosamente in “ragù” con soffritto di carota, sedano, cipolla e spesso piselli) e formaggio a pasta filata (mozzarella,
provola, cacio). Unico il tipo di cottura: la pallottola di riso, immersa in pastella. e impanata, è sapientemente fritta fino a doratura.

Quantità per circa 10 pezzi
Per il riso: 500 gr di riso carnaroli o vialone nano; 70 gr di burro; 2 bustine di zafferano; sale q.b.
Per il ragù di carne: 150 gr di carne macinata di maiale 50 gr di carne macinata di bovino; 1/2 cipolla, 1/2 carota, un pezzetto di sedano, 2 foglie di alloro, 2 – 3 chiodi di garofano, 2-3 cucchiai di olio extravergine, 200 ml di passata di pomodoro, 100 gr di piselli, 1/2 bicchiere di vino bianco, sale q.b., 80 gr di caciocavallo da grattugiare + 50 gr in pezzettoni (facoltativo)
Per la panatura: farina 00 (6 – 8 cucchiai e anche un pò di più a seconda di quanto ne assorbono gli arancini), acqua quanto basta per creare la pastella; pan grattatato.

Procedimento

  1. Prima di tutto preparate il riso, tecnica pilaf o ad assorbimento. Mettete il riso in 1,5l di acqua bollente e salata. Cuocete fino ad assorbimento e mantecate con burro e zafferano fino a quando non otterrete un composto perfettamente cremoso e amalgamato. Trasferite su una placca o una teglia larga,  in modo che il riso si possa raffreddare in maniera uniforme. Ci vorranno 2 o 3 ore.
  2. Dedicatevi al ragù. Tritate cipolla, sedano e carota molto finemente, salate e soffriggete con olio, aggiungete le carni macinate, lasciate rosolare 1-2 minuti, sfumate con vino. Lasciate asciugare, versate quindi la passata di pomodoro, alloro, chiodi di garofano e lasciate riprendere il bollore. Coprite con un coperchio e lasciate cuocere a fiamma dolce per almeno 50 minuti, Il ragù di carne deve risultare densissimo. Quindi togliete coperchio e fate tirare il più possibile, aggiungete infine i pisellini, benissimo anche quelli già congelati. Lasciate cuocere per ancora 15 minuti senza girare troppo, devono risultare integri. Eliminate le foglie di alloro e chiodi si garofano. Lasciate raffreddare mezz’ora,  infine aggiungete il caciocavallo grattugiato. Salate e lasciate raffreddare completamente.
  3. L‘arte dell'”arancinaro“. Prima di procedere alla formazione degli arancini siciliani, è bene che riso e ragù siano perfettamente freddi. Prelevate un pugno di riso e con una mano tenete il guscio, con l’altra scavate dentro al fine di realizzare un involucro per il ripieno: non c’è modo di spiegare, è un’arte. Adagiate dentro 2 cucchiaini di ragù e un pezzetto di caciocavallo. Aggiungete sopra un cucchiaino di riso e modellate con le mani ogni arancino. Potete decidere se realizzarlo perfettamente tondo, oppure come gli originali arancini palermitani a forma conica. Man mano che li realizzate compattate molto bene e ponete in un piatto da portata.
  4. Panatura. In una ciotolina a bordi alti aggiungete la farina e versate qualche cucchiaio di acqua al fine di creare una pastella densa e appiccicosa che non sia troppo fluida, ma della consistenza della tempura. Immergetevi l’arancino e fate in modo che venga ricoperto di tutta la pastella. Trasferitelo poi nel pan grattato dove gli darete nuovamente la forma.
  5. Frittura. Per la frittura, scegliete un pentolino a bordi alti, in cui friggere in abbondate olio di semi di arachidi 2 massimo 3 pezzi per volta, quando l’olio è bollente e ad una temperatura di 175°. Potete valutare la temperatura perfetta immergendo uno stecchino: se si riempie di bollicine è pronto. Immergete gli arancini di riso in olio bollente e fate cuocere per 2 minuti circa. Scolate su carta assorbente quando sono ben dorati.
  6. Mangiate e gioitene tutti.
  7. Inutile parlare di conservazione. Non sarà necessaria!

Bon appetit!

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