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O’ fattariello della Pastiera Napoletana

Quella della Pastiera napoletana è molto più di una storia. E’ un trattato, una tradizione se non addirittura una religione, che affonda le proprie radici in un territorio, quello partenopeo, imbevuto nel mito. Simbolo di accoglienza e integrazione, di fronte alla Pastiera qualsiasi dolce, pasquale e non, impallidisce.

Una pasta frolla a base di farina, uova, strutto e zucchero semolato, da stendere non in un qualsiasi stampo per dolci, ma nel ruoto (il tipico stampo con bordi lisci e svasati). Al suo interno, un profumatissimo ripieno a base di grano, ricotta, latte, uova, zucchero, frutta candita e aromi (no spoiler). Per finire, una delicata spolverata di zucchero a velo. Resistervi è semplicemente impossibile. E anche inutile.

Ma quando e come nasce il dolce campano per eccellenza? Qual è la vera storia della pastiera napoletana?

O’ fattariello della pastiera

Per la storia della pastiera c’è da mettersi comodi: ‘o fattariello è bello lungo e denso di avvenimenti, che si perdono nelle interpretazioni di una storia millenaria quale è quella della città di Napoli. Da segnalare, ovviamente, che le torte di grano e miele erano già molto diffuse nell’antichità classica.

Sono principalmente due le leggende che narrano in chiave fantastica la storia della pastiera napoletana. La prima affonda decisamente le radici nel mito. A preparare la prima pastiera, secondo questa versione, non furono infatti mani umane, quanto invece quelle della sirena Partenope. Si narra infatti che i napoletani – per ringraziare questa creatura mitologica per aver fondato la città, per proteggere i suoi abitanti e per allietarli con la sua voce melodiosa – donarono alla sirena i suoi celeberrimi sette ingredienti:

  • Ricotta: simbolo di abbondanza;
  • Farina: simbolo di ricchezza;
  • Uova :simbolo di fertilità;
  • Grano cotto nel latte: simbolo della fusione del regno animale e vegetale;
  • Zucchero: per celebrare il dolce canto della sirena;
  • Spezie: omaggio di tutti i popoli;
  • Fiori di arancio: profumo della terra campana.

E così la sirena, che oltre a cantare bene era evidentemente anche una cuoca sopraffina, utilizzò questi ingredienti per realizzare la prima pastiera della storia.

Leggermente più realistica – ma neanche troppo – è la seconda leggenda. Le protagoniste in questo caso sono le donne napoletane, nello specifico le mogli dei pescatori le quali, per assicurarsi che i mariti tornassero a casa incolumi, decisero di fare un’offerta al Mare. Delle ceste piene di fiori d’arancio, di grano, di canditi e di ricotta furono dunque lasciate sulla spiaggia. Durante la notte le onde si gettarono sui doni e li mischiarono l’uno con l’altro, tanto che il mattino seguente le donne, tornando alla spiaggia, trovarono delle gustose pastiere nelle proprie ceste.

Qualcuno poi dice che fosse “la merenda dei pescatori” e che quindi il nome pastiera derivi da pasta ‘aier, pasta di ieri, pasta avanzata dal giorno prima. In effetti, ci viene facile immaginare il contenuto energetico elevato del dolce, adatto per una giornata di fatica per mare.

Le origini – dando per buone più o meno tutte le storie – ci riportano comunque all’inequivocabile funzione votiva della pastiera, nonché di ringraziamento verso le divinità. Ad oggi, dopotutto, è comune abitudine ringraziare qualcuno regalando una pastiera nel periodo pasquale.

Il mito si fa storia

Sono queste antenate piuttosto incerte, però, del dolce che noi conosciamo. Che, con ogni probabilità, nacque molto più tardi: nel XVI secolo. In un convento, come la maggior parte dei dolci napoletani. Probabilmente, quello di San Gregorio Armeno.

Qui durante il periodo pasquale un’ignota suora volle preparare un dolce in grado di associare il simbolismo cristianizzato di ingredienti come le uova, la ricotta e il grano, associandovi le spezie provenienti dall’Asia e il profumo dei fiori d’arancio del giardino conventuale. Quel che è certo è che le suore del convento di San Gregorio Armeno erano delle vere maestre nella preparazione delle pastiere, che poi regalavano alle famiglie aristocratiche della città. “Quando i servitori andavano a ritirarle per conto dei loro padroni – racconta la scrittrice e gastronoma Loredana Limone – dalla porta del convento che una monaca odorosa di millefiori apriva con circospezione, fuoriusciva una scia di profumo che s’insinuava nei vicoli intorno e, spandendosi nei bassi, dava consolazione alla povera gente, per la quale quell’aroma paradisiaco era la testimonianza della presenza del Signore”.

Secondo alcune fonti inoltre, la “rete” di pastafrolla che ricopre la Pastiera sarebbe legata alla già citata storia dei marinai.  Secondo un’altra storia invece, la rete della Pastiera, che peraltro ha un ruolo funzionale – impedendo che l’impasto durante la cottura cresca troppo mantenendolo compatto e soprattutto morbido e spugnoso – simboleggia la pianta di fondazione della città di Napoli, ovvero la pianta a cardini (tre) e decumani (quattro) del centro antico della città. Le quattro strisce in un senso e le altre tre nell’altro sarebbero perciò l’immagine stessa delle strade del centro antico della città, famosa per la sua tipica forma reticolare.

Magnatell ‘na risata

La pastiera alberga poi addirittura un famoso detto. Stiamo parlando del celeberrimo – almeno ai conterranei del Sud – magnatell ‘na risata: tradotto” mangiatela una risata”. Letteralmente non è che ci sia molto senso, ma come espressione idiomatica il significato sarebbe: “sforzati, ridi un po’, che non ti fa male”.

Dietro questo modo di dire però, si tramanda come leggenda una sintesi storica e culinaria che vede protagonisti una coppia di coniugi illustri, cioè il re Ferdinando II di Borbone e Maria Teresa d’Asburgo-Taschen, uniti prorio da questo delicato dolce.

Quello che sappiamo dalla storia, è che Maria Teresa andò in sposa a Ferdinando II, dopo la morte della prima moglie di quest’ultimo: siamo nel 1837.  Maria Teresa aveva un comportamento poco consono per una regina: non amava la vita di corte, detestava i salamecchi della nobiltà borbonica, era addirittura chiamata “la regina che non sorride mai”. A quanto pare però, un sorriso riuscì a strapparglielo suo marito Ferdinando, con una fetta di pastiera, dolce del quale era molto ghiotto. Si tramanda infatti che la regina – sorpresa dal gusto della pastiera – finalmente sorrise. E il marito – che a quanto pare di senso dell’umorismo, ne aveva – disse:

Chistu dolce te piace eh? E mò c’ ‘o saccio
ordino al cuoco che a partir d’adesso,
stà pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere ha dda passà n’at’ anno!

(Ti piace questo dolce? Ed ora che lo so, ordinerò al cuoco che da ora questa pastiera si farà un po’ più spesso. Non solo a Pasqua, ché altrimenti è un danno, perché per farti ridere dovrò aspettare un altro anno!)

La diffusione della pastiera: da Cenerentola al Cuoco Galante

La diffusione della pastiera sin dal Seicento a Napoli ci è confermata dal novelliere Giovan Battista Basile che, nella favola La Gatta Cenerentola (da cui Perrault attinse per la sua Cendrillon), inclusa nell’opera magna Lo cunto de li cunti (Il racconto dei racconti, da cui trae ispirazione il noto film di Matteo Garrone), la nomina proprio esplicitamente:

E,venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle”.

L’episodio, in particolare, riguarda il banchetto che il re aveva organizzato per ritrovare la fanciulla protagonista. L’esegesi di “pastiera” ce la fornisce Benedetto Croce nel 1925, con il suo commentario all’opera. Ed è proprio quella, manco a dirlo.

Facciamo un salto di un paio di secoli, precisamente atterriamo dolcemente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Altre tracce scritte della pastiera napoletana ci vengono fornite con precisione accademica dal gastronomo e filosofo adottato a corte borbonica Vincenzo Corrado, che nella sua opera magna Il cuoco galante ci regala la ricetta completa della “torta di frumento“, con tanto di descrizione ed indicazione “da fare in aprile”:

” Ammollito bene il frumento in acqua, cotto in brodo e freddato, si mescolerà con panna di latte, gialli di uova, giulebbe (acqua di rose, dall’arabo medievale ǧulāb), cedro pesto, e sciolto con acqua di fiori d’aranci, con senso di ambra e d’acqua di cannella; si metterà nella cassa di pasta, la quale si coprirà con altra pasta a strisce, e si farà cuocere.”

Una storia destinata a durare e che ci rende verosimile anche l’inciucio riguardo Ferdinano II e Maria Teresa. La pastiera era cibo ghiotto per la corte borbonica, decisamente poco raggiungibile per il popolino napoletano, sempre affamato. Con il tempo, la pastiera ha avuto un successo trasversale come pochissimi altri dolci, diventando un’icona a tutto tondo. I venditori ambulanti di grano cotto iniziarono ad apparire agli angoli delle strade e si narra di mitologiche uappevenditrici ambulanti, che rispondevano al nome di Pascarella (derivando da Pasqua).

La Pastiera oggi

Nel Novecento la Pastiera assume la definitiva consacrazione a dolce domestico, dovuta al fatto che gli ingredienti diventano a mano a mano facilmente reperibili; e una volta presa “la mano”, la pastiera è un dolce lungo ma semplice da fare. Semplice da fare, ma non privo di controversie, tanto da risultare la ricetta più googlata del 2019.

Un primo dubbio infatti riguarda il grano. Oggi il grano precotto è di gran lunga la soluzione più pratica, ma la pastiera diventa ancor più vera se si utilizzano i “normali” chicchi di grano, messi a bagno in acqua tiepida per diversi giorni. L’indomani il grano per la crema si farà cuocere assieme a latte, scorza di limone, cannella, un baccello di vaniglia e un cucchiaino di burro chiarificato. Fino a quando il grano non avrà assorbito tutto il liquido. Alcune ricette, poi, ai chicchi preferiscono il grano frullato. Altre, salomonicamente, si dividono a metà: metà grano in chicchi e metà frullato. La cannella, inoltre, spesso compare come ingrediente facoltativo. Nella versione della storica bottega Starace (oggi non più esistente) di piazza Municipio, poi, la ricotta non veniva unita alle uova ma a una raffinata crema pasticciera.

Una cosa rimane certa tuttavia: tradizione vuole che la pastiera sia preparata il Giovedì Santo e consumata a Pasqua, per dar modo a tutti i sapori di amalgamarsi.

La pastiera è una livella

La storia della pastiera napoletana. Tra miti, leggende, origini cattoliche e anche pagane, la pastiera è alla corte dei re ma anche merenda dei pescatori. Soggetto di poesie, letteratura e fiabe, ma anche tradizione tutta napoletana ormai nota in tutto mondo.

“Lurido porco!…Come ti permetti
paragonarti a me ch’ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?”

“Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!
T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella
che staje malato ancora e’ fantasia?…
‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

Che sia cotta in un forno a legno di masseria oppure nel forno domestico di un condominio, essa diventa un cibo comunitario: identità di una comunità piccola e poi grande, dalla famiglia alle famiglie, e alle città.

Tempo fa Totò scrisse che la morte è una livella. Ebbene, anche la pastiera lo è.

BIBLIOGRAFIA

https://www.dissapore.com/cucina/pastiera-napoletana-storia-tradizione-e-leggende/

https://www.lacucinaitaliana.it/news/in-primo-piano/pastiera-napoletana-storia/

LA MIA PASTIERA NAPOLETANA

Ingredienti per un ruoto da 20-22 cm

Per la frolla: 250g farina 00, 80g strutto (o burro), 1 uovo, 60g zucchero, 20g miele millefiori, 40g latte, sale q.b.;

Per il ripieno: 280g grano cotto, 80g latte, 250g ricotta di pecora, 100g zucchero, 20g miele, 3 uova, 50g cedro candito, scorze di 1 limone e 1 arancia, 1 baccello di vaniglia, cannella q.b., 1 cucchiaio acqua di fiori di arancio, sale qb.

Preparazione

  1. Dedicatevi alla preparazione della frolla. La pastiera è un atto di amore, e si lavora a mano. Su una spianatoia distribuite la farina e create una fontana molto larga: la farina dovrà miscelarsi agli altri ingredienti solo alla fine. Iniziate così a versare nel centro della fontana il vostro grasso (strutto, burro o mix tra i due), lo zucchero, il miele, e iniziate ad amalgamare gli ingredienti fino a completo assorbimento. Versate poi uovo, latte e il pizzico di sale, continuando ad amalgamare e incorporando pian piano la farina, impastando prima con la punta e poi con il palmo delle mani (attenzione a non scaldare eccessivamente il composto), ricavandone un panetto omogeneo. Ponete l’impasto in frigo in una ciotola o in un piatto sigillati con pellicola da cucina per almeno 1/2 ore. Nessuna fretta.
  2. Nel frattempo passate alla preparazione del grano. In una padella dal fondo spesso versate grano, latte, scorze di agrumi, cannella, baccello di vaniglia aperto e liberato dai semini (che aggiungerete poi alla crema) e un pizzico di sale, cuocendo a fuoco lento fino a completo assorbimento: ci vorranno ca. 20 minuti. Versate poi il composto ottenuto in un nuovo recipiente e fatelo raffreddare, a temperatura ambiente o in frigo.
  3. E’ arrivato il momento di inricottarci. La ricotta DEVE essere setacciata. Una volta passata in un setaccio a maglie fini, aggiungete lo zucchero, il miele e le uova, montando leggermente il composto a mano. Prendete la crema di grano ormai fredda e aggiungetela al composto, completando con l’acqua di fiori di arancio, i canditi (cedro, arancia o entrambi) e i semi ricavati dalla bacca di vaniglia. Mescolate e mettete in frigo a riposare. La pastiera la “si monta” il giorno dopo.
  4. Giovedì santo, è tempo di infornare. Separate un quarto della porzione di pasta frolla dal resto dell’impasto: saranno le nostre losanghe, dovremo ottenerne 7 (se avete letto l’articolo sapete anche il perché). Stendete così la pasta frolla su un piano infarinato fino ad ottenere uno spessore di 5 mm e foderate con essa un ruoto da 20-22 cm precedentemente imburrato e infarinato. Riempite la frolla con il ripieno, posizionatevi sopra 4 nastri di pasta, in modo che siano equidistanti fra loro, e gli altri 3 sopra i precedenti, ma in obliquo, a croce di Sant’Andrea.
  5. Infornate in modalità statica 170 °C per 1 ora e 10/20 minuti: la pastiera richiede tempo. Sarà cotta quando il ripieno sarà leggermente rigonfiato e completamente sodo (ma non spaccato, in tal caso avrete sbagliato la temperatura), e la frolla sarà sufficientemente scura (è questo uno dei motivi per cui utilizzo il miele) ma non bruciata.
  6. Sfornate e fate raffreddare la pastiera per almeno 8 ore in un luogo asciutto, coprendola solo una volta che sarà completamente fredda. Si consiglia di aspettare almeno 1 giorno prima di assaggiarla, per permettere agli aromi di svilupparsi al meglio. Non è necessario sformala: il ruoto si lascia vedere.
  7. Se lo gradite, potete spolverare la pastiera con dello zucchero a velo, ma soltanto prima di servirla. Secondo me però, non ce n’è proprio di bisogno.
  8. Last but not least, buon appetito. E buona Pasqua.

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