Il siciliano è il prodotto di un territorio che non è un pezzo staccato d’Italia, che non ha mai fatto parte di alcuna parte del mondo in epoca storica, che è stato occupato da nord, sud, est, ma mai è stato assimilato. L’isola in cui niente è stabile se non il movimento; dove vulcanismo e nettunismo sono continuamente all’opera.
Quel posto dove un giorno trasforma la storia di secoli.Paul Yorck von Wartenburg
“Andare in Sicilia è meglio che andare sulla Luna“, diceva Màrquez. Dal Medioevo ai Romantici, la mai ferma terra della Triscele non ha mai cessato di favoleggiare su se stessa. Terra stessa del mito, qualsiasi seme vi cada, invece della pianta che se ne spetta, si fa favola: la Favola Siciliana.
E’ la terra che ha soggiogato i suoi dominatori: da tutti ricevendo un’eredità, ma di nessuno mai davvero sposando fino in fondo valori e ragioni. Trasformisti, vittime per davvero ma anche vittimisti per comodità, i Siculi si lasciano trasportare dalle correnti della storia.
Eppure cosa sarebbero i siciliani senza i loro cibi? Senza l’espressione forse più colorata e goduriosa della loro stratificazione culturale, che a sua volta poggia sulla fortuna di un’immensa ricchezza naturale in termini di materie prime? Dal cuscus alla cassata, dagli arancin* alla caponata di melanzane, dal cannolo al sorbetto, le testimonianze più importanti del passato arabo non sono né letterarie né architettoniche. E tra il profumo delle spezie e il candore del riso, si capisce che andare in Sicilia solo in cerca di spiagge da cartolina è un delitto. Un delitto imperdonabile.
“Aver visitato l’Italia senza aver visitato la Sicilia è come non aver visto niente“, sentenzia Goethe nel 1787, appena sbarcato a Palermo. In effetti, tutta la storia d’Italia e di gran parte dell’Europa sembra filtrata, concentrata e rappresentata su quest’isola. Greci e Cartaginesi, Romani, Goti e Vandali, Bizantini e Saraceni, Normanni, Svevi, poi Spagnoli e Francesi: tutti infliggeranno gravi perdite, ma anche apporteranno enormi contributi alla terra conquistata.
Il cibo siciliano, e in particolare quello di derivazione arabo-musulmana, diventa allora la nostra scusa per scoprire o riscoprire quest’isola-universo, a me così vicina nello spazio e nel cuore. Per ammirare la natura naturale di un luogo dove, purché vi sia il sole, è sempre primavera; anche più primavera se c’è la neve sull’Etna.
Cu lu tuppu o senza lu tuppu: Le origini di un mito
Non è un croissaint. Non è la “brioche” comunemente intesa nelle regioni del Nord. E’ qualcosa di diverso. Qualcosa di più. “In Italia il cibo è una forma d’arte, in Sicilia una religione“, ha scritto Rick Steves. Amen.
Questo è vero soprattutto se pensiamo ai litigi che certi gesti a una tavola siciliana possono provocare. Uno su tutti? Rubare il “tuppo” al commensale. Guai a provarci: basta una sfrontatezza del genere, fatta con leggerezza, per distruggere amicizie storiche o scatenare guerre familiari in men che non si dica.
C’era un tempo in cui le famiglie aristocratiche chiedevano ai propri cuochi nuovi e sorprendenti piatti. E così leggenda vuole che il cuoco di una non precisata famiglia nobile, alla richiesta di qualcosa di morbido e leggero dove spalmare la marmellata a colazione, inventò la “brioscia” siciliana. Una ricetta così deliziosa che in breve tempo non solo conquistò la famiglia, ma si diffuse un po’ ovunque diventando una delle ricette tipiche e più conosciute dell’isola. Attenzione, però, a non chiamarla “brioche” perché, al contrario di quanto si possa pensare, sono stati i francesi a prendere in prestito il nome siculo e a trasformarlo: j’accuse! Tuttavia, se c’è una cosa che dobbiamo ai cugini francesi, piuttosto, è la parola dialettale “tuppo”, che indica l’acconciatura tipica delle danzatrici, lo chignon. In normanno infatti, lo chignon si chiamava ‘toupin’; in gallico ‘toupeau’; e in francesce moderno ‘toupet’, da cui il nostro siciliano ‘tuppo’.
Ma c’è di più. Secondo quanto tramandato da uno scioglilingua della tradizione, la forma tipica della brioscia sarebbe legata a una travagliata storia fra due giovani, il cui amore fu ostacolato dalla madre della ragazza che portava lunghi capelli raccolti sulla nuca. La fanciulla, per il dolore e come atto di ribellione, avrebbe perciò tagliato la chioma: quella dote che la rendeva irresistibile agli occhi di tutti, compreso il suo innamorato. Il gesto commosse a tal punto la madre che finalmente acconsentì al fidanzamento.
«Cu lu tuppu un t’appi, senza tuppu t’appi. Cu lu tuppu o senza tuppu, basta chi t’appi e comu t’appi t’appi»
“Con i capelli raccolti sulla nuca non ti ho avuta, senza capelli raccolti sulla nuca ti ho avuta. Con i capelli raccolti o senza capelli raccolti, basta che ti abbia avuta, comunque ti abbia avuta”.
Poteva non entrarci in qualche modo l’amore, anche se alla lontana? D’altronde, se una cosa è certa, donare il “tuppo” della briosca è la più grande dichiarazione d’amore che si possa fare.
Esaltazione del palato, tripudio di profumi e compagna immancabile nel rito della granita, la brioscia col tuppo è un rituale che racconta la vita dei siciliani tra tradizioni e ricordi. Per dirla proustianamente, è la madeleine del siciliano. E’ evocazione e sinonimo di sicilianità. E di felicità.
Chi la mangia per la prima volta non può non sporcarsi fin dentro alla maglietta. Il tutto, però, sta nel far propria quella macchia. Godersela. Andarne fieri. Andare fieri di quella macchia a forma di vita. Perché è questa favola naturale che rende la Sicilia così speciale: la poesia di mettere insieme l’arancio e la neve.
Non è un’isola, la Sicilia. La Sicilia è meravigliosa.
«Scinnì, individuò un bar, s’assittò a un tavolino all’aperto, ordinò una granita di caffè e una brioscia.»
Andrea Camilleri
RICETTA della MIA Brioscia col tuppo
Ingredienti:
350 gr farina Manitoba
200 gr farina 00
80 gr zucchero
80 gr strutto
5 gr sale
24 gr di lievito di birra
150 ml di latte intero tiepido
10 gr di miele
2 uova grandi a pasta gialla
buccia grattugiata di 2 clementine
Preparazione:
- Impasto. Far intiepidire il latte e unirvi lievito e miele. Unire le farine allo zucchero nella planetaria, quindi aggiungere il latte assieme alle uova sbattute e alle bucce di agrumi. Iniziare a impastare con la foglia e passare al gancio una volta ottenuto un composto semi-duro. Per ultimo aggiungere il sale, e così lo strutto a piccole dosi, accertandosi di dare il tempo all’impasto di assorbirlo adeguatamente. Far incordare l’impasto per una decina di minuti fino ad ottenere un composto morbido ed elastico.
- Lievitazione. Fai lievitare fino a raddoppiamento di volume in forno spento: ci vorranno due/tre ore. Raddoppiato di volume, spezzare l’impasto in un egual numero di palline da 80 g e da 15 g (dovrebbero uscirne circa 10-11). Pirlare i pezzi di impasto così ottenuti (ovvero, arrotondare facendolo girare tra le mani o sul piano di lavoro dandogli una forma sferica regolare: in questo modo si da una crescita regolare all’impasto durante la lievitazione). Sistemare le più grandi su una placca da forno, e facendo una buona pressione nel centro (non avete paura, altrimenti i tuppo fuoriuscirà durante la seconda lievitazione!), e sistemate sopra le più piccine. Far lievitare nuovamente per due ore (o ancora meglio in frigo per tutta la notte).
- Cottura. Spennellare con un mix di tuorlo d’uovo e un goccio di latte, ed infornare in forno statico a 180°C per 15-20 minuti, senza mai aprire lo sportello. Sfornare e far raffreddare.
- Degustazione. Qui si aprirebbe un vero e proprio libro. Da sola o in abbinamento a granita o gelato, mangiare una brioscia è un’arte, e non partire dal tuppo è una pratica che ha nell’isola del “blasfemo culinario”. Infatti, la PRIMA cosa che fa un siciliano quando ha in mano una brioche col tuppo è, rigorosamente, quella di staccare il tuppo e affogarlo nella granita, nel gelato o nella crema.
PerchE’ se non mangi prima il tuppo, godi solo a metà.