Al momento stai visualizzando Dieta mediterranea: esiste davvero?

Dieta mediterranea: esiste davvero?

La Dieta Mediterranea costituisce un insieme di abilità, conoscenze, pratiche e tradizioni che spaziano dal paesaggio alla tavola, che comprendono le coltivazioni, il raccolto, la pesca, la conservazione, lavorazione, la preparazione e, in particolare, il consumo degli alimenti. La Dieta Mediterranea è caratterizzata da un modello nutrizionale che è rimasto costante nel tempo e nello spazio, che consiste principalmente di olio d’oliva, cereali, frutta e verdura fresca o secca, una quantità moderata di pesce, latticini e carne, e molti condimenti e spezie, il tutto accompagnato da vino o infusi, nel rispetto delle credenze di ogni comunità. Tuttavia, la Dieta Mediterranea (dal greco diaita, o stile di vita) riguarda più che i semplici alimenti. Essa promuove l’interazione sociale, dal momento che i pasti comuni rappresentano la pietra angolare delle usanze sociali e degli eventi festivi. Si tratta di un sistema radicato nel rispetto per il territorio e la biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e artigianali legate alla pesca e all’agricoltura nelle comunità mediterranee.

UNESCO, decisione 5 COM 6.41 del 16 novembre 2010

L’espressione dieta mediterranea (DM) nasce in ambito medico-scientifico tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, con riferimento alla situazione alimentare del Mezzogiorno d’Italia e di alcune aree del Mediterraneo nel difficile periodo del dopoguerra. E’ uno studio condotto a Creta per conto della Rockfeller Foundation nel 1948 a gettare le basi per la costruzione di questo regime alimentare efficace per prevenire svariate malattie. La promozione di un ‘regime mediterraneo’, contrapposto ai modelli alimentari di tipo ‘continentale’ dei Paesi industrializzati dell’Occidente, si afferma in particolare con le indagini del biologo e fisiologo americano Ancel Keys che, a partire dal 1952, mette in relazione determinati stili alimentari ‒ in particolare l’eccesso di grassi animali ‒ e fattori di rischio cardiovascolari in sette paesi europei e non (Stati Uniti, Italia, Finlandia, Grecia, Paesi Bassi, Giappone e due nazioni dell’ex Jugoslavia, le attuali Croazia e Serbia). Grazie a ricerche condotte a partire dal 1957 in Grecia, a Creta e nel Mezzogiorno d’Italia (a Nicotera in Calabria e a Pioppi, frazione di Pollica, nel Cilento), Keys e altri studiosi segnalano come il tradizionale modello alimentare di alcuni di questi popoli svolga un’importante funzione preventiva per le malattie cardiovascolari.

Il modello ‘tipicamente mediterraneo’ fa però riferimento, spesso in maniera poco puntale e implicita, alla frugalità, alla sobrietà, all’equilibrio di una tradizione in realtà non ben precisata; a una sorta di dietetica passata che si sarebbe affermata in maniera uniforme un po’ dappertutto in questi territori. Sarebbe invece importante considerare – cosa che tenta di fare lo storico Vito Teti nel suo La dieta mediterranea: realtà, mito, invenzione – che il periodo in cui veniva costruito tale modello di dieta le popolazioni conoscevano ancora situazioni di disagio alimentare e si apprestavano a fare scelte che le avrebbero – per fortuna, verrebbe da dire – allontanate da un regime del genere, considerato assai precario e insufficiente.

«Quanta delusione per i nutrizionisti di oggi, cultori della “dieta mediterranea”, pensare che la “dieta del Mediterraneo” che si consumava in “terre come il Cilento” non era a base di olio di oliva e di frumento, ma di castagne, granturco, e grasso di maiale».

M. Cresta, Va camminannu cu’ l’uocchi spierti. Una breve storia dell’alimentazione e di altre cose di una comunità montana del Cilento.

Diverse ricognizioni sui consumi alimentari condotte dall’Istituto nazionale della nutrizione alla fine degli anni Novanta mostrano infatti come i meridionali si fossero in realtà allontanati dalle precedenti abitudini, e avessero abbandonato, nonostante revival e mitizzazioni , quella dieta mediterranea che veniva promossa e proposta in vari modi. Inoltre gli studiosi – soprattutto medici, biologi, nutrizionisti – hanno sottolineato i risvolti positivi (dietetici, psicologici, sociali e culturali) di tali trasformazioni, con la statura media dei meridionali che ha ormai raggiunto gli standard americani, grazie in primis a un migliore regime alimentare, nonché a importanti mutamenti igienico-sanitari, tra cui la scomparsa del parassitismo intestinale, che ancora negli anni Cinquanta colpiva e segnava una percentuale elevata della popolazione infantile.

MITO O REALTà?

Il modello attuale della dieta mediterranea non sembra quindi corrispondere alla realtà storica di nessuna ben precisa regione geografica del Mediterraneo. Ancora nella prima metà del Novecento e fino agli anni Cinquanta le popolazioni meridionali presentavano un regime alimentare a base di pane di mais, patate, pomodori, peperoni, legumi, e per il condimento usavano soprattutto il grasso di maiale. La ‘trinità mediterranea’ (olio, grano e vino) restava un’eredità pesante, è vero; ma caratterizzava per lo più la cucina dei ricchi, e soltanto i sogni dei ceti popolari.

Il mito non riflette la realtà purtroppo: un dato, questo, che balza agli occhi anche dagli stessi “inventori” della DM. A Nicotera infatti, i rilevatori del gruppo guidato da Keys, che pesavano quotidianamente le pietanze consumate ogni giorno dalle famiglie individuate per l’indagine, trovavano spesso donne di casa che spiegavano: «Stasira non pensu ‘ca mangiamu», così come molti bambini che si strofinavano gli occhi lucidi, ammettendo di non avere mangiato: «Avimu fami». Mentre i rilevatori elaboravano quella che sarebbe diventata laDM, i contadini che non avevano nulla da mangiare provavano difficoltà, disagio e vergogna a vedersi osservati mentre consumavano un povero pasto e invitavano le persone a passare l’indomani.

Molti osservatori insistono sul ‘modello della parsimonia’ e sui comportamenti moderati, sia nel mangiare sia nel bere, dei contadini. Immagini, ora realistiche ora edulcorate, dei meridionali frugali, parchi, laboriosi, sani, resistenti alla fatica vengono spesso riproposte e rinnovate in folkloristici, bucolici discorsi. Interessanti e appassionati, questo è certo; ma anche un po’ kitsch. La sobrietà dell’uomo del Mediterraneo si rivela infatti una scelta obbligata, costituita com’è all’insegna di un razionamento necessario, non sempre – o meglio, quasi mai – desiderato.

«Però io vorrei diventare uno di loro [un ricco], questo sì. Mangerei tanto da spaccare: carne, uova, mangerei; salsicce, galline, mangerei: capretti, cacio, prosciutto, mangerei: e berrei vino montonico e greco […]» (1959, p. 219).

Saverio Strati, Tibi e Tascia (1959)

Insomma, il Mediterraneo non è mai stato un paradiso di cibo offerto gratuitamente al diletto dell’umanità. Anche qui tutto ha dovuto essere costruito, e spesso più faticosamente che altrove. Fonti di vario genere hanno ricondotto o collegato proprio alla fame patologie fisiche e psicologiche delle popolazioni meridionali, tra cui: elevata natimortalità e mortalità infantile, bassa statura, comportamenti antisociali. La fame denota allora una condizione reale e a volte psicologica, e narra di insoddisfazione, precarietà, incertezza, paura. Suo contrappunto reale o desiderato è l’abbondanza.

E come non esiste una sola fame, così non esiste una sola abbondanza.

I GENI DELL’ECONOMIA

L’obesità diffusa attualmente tra le popolazioni meridionali viene spiegata dai nutrizionisti come l’esito del rovesciamento e del tradimento della dieta mediterranea. Questa conclusione presuppone che gli individui del passato avessero una sorta di predilezione per la magrezza e ritenessero la grassezza una malattia o qualcosa di negativo. E’ davvero così?

Grasso è bello: è questo il motivo principale presente nelle società tradizionali del Sud e del Mediterraneo, come documentano la letteratura colta e le fonti di tradizione orale. Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli (1945) ricorda gli apprezzamenti che gli rivolge la donna presso cui trova alloggio e che lo aiutava a farsi il bagno: «Quanto sei bello, – diceva –, quanto sei bello grasso». L’essere grasso, commenta lo scrittore, è qui il «primo segno della bellezza, come nei paesi d’oriente; forse perché per raggiungere la grassezza, impossibile ai contadini denutriti, è necessario essere Signori e potenti».

Antropologi e ricercatori suggeriscono oggi che le popolazioni povere e denutrite per sopravvivere facciano ricorso a strategie biologiche, che consentano loro di accumulare, nei periodi di maggiore disponibilità alimentare, le sostanze energetiche in forma di grasso. La capacità di trasformare le calorie del cibo consumato in grasso è un’eredità biologica degli uomini delle società preindustriali. Si è parlato di “thrifty genes hypothesis” o ipotesi dei ‘geni dell’economia’: questi geni, mai scoperti in realtà, sarebbero responsabili tra le altre cose di stimolare un’overproduzione di insulina, e quindi un’insulino-resistenza a livello dei tessuti, grazie alla quale la maggior parte delle energia assunte sarebbe convertita in depositi adiposi. L’iperinsulinismo permetterebbe, in altri termini, di accumulare grassi utilizzabili nelle situazioni di necessità, nei momenti di più intensa e dura attività lavorativa. Ma se nel passato l’iperinsulinismo non creava problemi alle popolazioni povere che conoscevano l’alternanza di periodi di ‘fame’ o di scarsezza alimentare e di periodi di maggiore disponibilità alimentare; di periodi di duri lavori, durante i quali erano richieste notevoli energie, e di periodi meno faticosi; nelle popolazioni moderne invece, che non conoscono più privazioni alimentari e che non mangiano più soltanto per sopravvivere, il ‘gene dell’economia’ favorirebbe un continuo deposito di grassi, alla base del fenomeno obesità. L’antico mito della grassezza e il terrore antico della fame sono quindi in parte all’origine delle attuali scelte alimentari e dietetiche delle popolazioni.

La fame come responsabile della magrezza dei poveri di ieri e dell’obesità di quelli di oggi.

LA CONTRODIETA MEDITERRANEA

Il termine dìaita negli autori greci (Pindaro, Erodoto, Tucidide, Ippocrate, Plutarco) indica, oltre che un regime alimentare, un ‘genere di vita’, ‘modo di vivere’, ‘tenore di vita’. Sofocle nell’Edipo a Colono adopera il termine nell’accezione di ‘vitto e alloggio’. L’idea di ‘dimora’ o ‘residenza’ è presente invece in Aristofane e in Plutarco. Il trattato ippocratico Sulla dieta (6° sec.) rivela come già nell’antichità fosse evidente il legame tra alimentazione e salute. Cibi e bevande vengono classificati, infatti, sulla base delle loro proprietà nutritive e salutari; e nel trattato vengono stabiliti anche i diversi regimi stagionali adatti ai diversi individui. La dieta, non solo dal punto di vista alimentare, ma anche l’attività fisica e il riposo servono a evitare l’insorgere delle malattie e sono pratiche consentite solo a chi è libero dalle occupazioni quotidiane e dalla necessità di guadagnarsi la vita. Il trattato ippocratico influenzerà le concezioni delle epoche successive: da quelle presenti in autori romani (Cicerone, Plinio il Giovane, Svetonio, Petronio) fino a Galeno (2° sec. d.C.) e ai trattati medici e alimentari dell’alto e basso Medioevo.

Ma la dieta desiderata dai ceti popolari del Mediterraneo non è quella indicata dai regimina sanitatis medievali. Quando è possibile i ceti popolari realizzano una sorta di ‘controdieta’ a base di cibi caloricamente densi e abbondanti. E anche la recente ideologia delle diete (in cui viene inserita la dieta mediterranea) incontra facili ironie, in quanto considerata una sorta di invenzione che continua le ideologie dei digiuni e delle astinenze.

‘LA’ dieta mediterranea non esiste; o meglio, non è mai esistita. Gli spagnoli amano il maiale; gli egiziani, di regola, no. In alcune regioni, la gente faceva il pesto con lo strutto, non con l’olio d’oliva. “Non esiste una cosa chiamata dieta mediterranea; ci sono LE diete mediterranee”, dice Rami Zurayk, professore di agricoltura all’Università americana di Beirut. “Condividono alcuni punti in comune – c’è molta frutta e verdura, ci sono molti prodotti freschi, si mangiano in piccoli piatti, c’è meno carne. Queste sono caratteristiche comuni, ma ci sono molte diete mediterranee diverse”.

Vero è che le più virtuose tra queste diete hanno un’altra cosa in comune: sono l’espressione di una “cucina povera”. Detto questo però, ai tempi di Ancel Keys, i mediterranei mangiavano lenticchie invece di carne perché non avevano scelta. “Molto ha a che fare con la povertà, non con la geografia”, spiega l’antropologo Sami Zubaida. Parlare di dieta significa quindi anche parlare di desiderio. La dieta che Keys e i suoi colleghi hanno dipinto aveva poca somiglianza con ciò che i mediterranei volevano effettivamente mangiare.

COME MANGIARE bene e vivere bene con la dieta mediterranea (oggi)

In una società che per fortuna non dipende più esclusivamente dalla produzione stagionale non è importante mangiare sempre e comunque: è importante sapere cosa si mangia, come, quando e con chi si mangia. Interessante notare, a proposito dell’alimentazione mediterranea, che il francese saveur e l’italiano sapore derivano entrambe da ‘sapere’. La DM oggi – rispetto al ‘non mangiare’, al digiuno, alla ‘non cucina’ e alla ‘gastro-anomia’ dilagante- ci suggerisce invece la costruzione di un mangiare e di un nuovo sentimento dei luoghi basati sulla ricerca dell’equilibrio, della salute, del benessere, della socialità, dello stare insieme; senza cadere in retoriche localistiche e nemmeno in un relativismo assoluto, che equipara tutti i cibi e i non cibi e annulla tutte le diversità.

Occorre scongiurare il rischio di cadere in un modello alimentare unico, esclusivo, omologante. Significa comprendere il carattere storico, mobile, controverso – ma non impossibile – di una dieta mediterranea da realizzare oggi. Acquisire, insomma, la consapevolezza che non esistono isole scampate alla modernità; e soprattutto che la dieta non consiste soltanto in percentuali e quantità raccomandate di nutrienti.

Dieta è stile di vita. Dieta è stare bene. Ma soprattutto, Dieta è salute. Qualsiasi sia il modo in cui vogliamo chiamarla.

BIBLIOGRAFIA

V. Teti. La dieta mediterranea: realtà, mito, invenzione. Da L’Italia e le sue regioni (2015). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani.

A. Keys, M. Keys, How to eat well and stay well: the Mediterranean way, New York 1975.

https://www.nytimes.com/2011/04/03/magazine/mag-03YouRHere-t.html

Lascia un commento